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zaritmac

~ La mia vita è una parola che ho impiegato tutta la vita a pronunciare.

zaritmac

Archivi Mensili: ottobre 2004

30 sabato Ott 2004

Posted by zaritmac in Uncategorized

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Frammento

Il filo spezzato fuoriesce come un rivolo di sangue.
L’arto scomposto si distende in una posa oscena nel suo essere improbabile. Non si trascina, non prova ad alzarsi, solo lo scuote lievemente il rollio del carro sulla via. La manica lunga sul moncone troncato si affloscia come una tenda su cui si sieda il vento.
Gli occhi fissano i ganci che si spintonano in un chiacchierio di ferro, cadendosi addosso ad ogni curva. Ricomponendosi come passeggeri di un autobus ad ogni scossa controlaterale.
Da quelli ancora pieni ondeggiano i compagni muti. La bionda scuote le trecce e sbatte le gambe magre diffondendo intorno odore e rumore di legno stagionato.
Il principe fa suonare i suoi fianchi con le palette delle mani troppo grandi; gli occhi sgranati, intimamente sorpresi dell’invariabile sorriso dipinto quattro centimetri più giù.
La mano delusa chiude il libro con una scossa decisa. “Questa favola è vecchia”, sussurrano due labbra bambine.

Il carro deraglia. Si capovolge. Due ruote rotolano sghembe, sparendo dentro il dorso gobbo. Cerca di lisciare invano l’orlo della gonna la bionda impigliata nella piega di un foglio chiuso in fretta. Si mescolano fili, seta, fodere e legno.

Nel buio improvviso che anticipa la fine la marionetta rotta s’impicca al filo della e.

(RitaMazzocco – Note a parte © 8brezero4)

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26 martedì Ott 2004

Posted by zaritmac in Uncategorized

≈ 15 commenti

Serena

“Ancora un punto e poi poserò la tela ed uscirò in terrazzo per godermi il sole”. Il tempo di alzare la testa dall’ordito e il buio calò.

(RitaMazzocco – Brevissimi – In nome e per contro © lugliozero1)

18 lunedì Ott 2004

Posted by zaritmac in Uncategorized

≈ 37 commenti

Gravità

A certe donne la vita non lascia altra scelta che riavvolgersi dall’interno e decorare con saliva e sangue le pareti del tunnel da abitare.
Così si abituano a cadersi dentro. E spesso la gravità tira giù la loro anima fino a che rotolando si blocchi nell’incavo delle cosce serrate da una stantia e distratta abitudine al pudore.
Così camminano strusciandosi le gambe intorno al cuore. Ci infilano due dita per toccarlo, per sentirlo battere ancora, si titillano i ricordi tenendoli serrati nelle pieghe della carne come aborti partoriti.
Strusciano i palmi sui sogni e con due dita li ricacciano dentro nel buio paradiso di un’innocenza rivendicata, di un desiderio inconfessato che finisce per scoppiare sulla punta di un’unghia sapiente e spalmarsi prosciugato e incerto sul lembo interno e morbido di un anonimo slip.

E il mondo fuori piove. Come un sasso solo, nella sua gravità.

La sentì collassare sulla sedia. Sembrava crescere e dilatarsi nel dilagante e dolciastro calore della carne che lentamente arde. S’apriva. Una conchiglia al fuoco. Cedeva contro il legno, tremula.
Le labbra si schiusero, diventando umide. Da bambina lo faceva spesso così. A cavallo di una sedia. Ma questa volta lui aveva un viso. E che viso! Sfacciato e insolente come un bambino imbronciato, ma quando lo prendeva nella mano e le si avvicinava senza ammettere repliche erano gli occhi a diventargli più duri. E allora lei li chiudeva, aspettando di sentire dal sudore del suo palmo dove sarebbe iniziato l’assalto. Con la mano tra i capelli lui l’avrebbe fatta piegare con la sola forza di un inespresso comando. Se si fosse diretto alla feritoia tra i suoi peli, lei gli avrebbe spalancato le gambe come burro fuso sotto la lama ardente della sua mano sicura. Una mano sulla rotondità dei fianchi e allora gli avrebbe rivolto le spalle trattenendo il respiro e già completamente arresa. Avrebbe indugiato un istante prima di varcare la soglia tra dolore e piacere, poi non sarebbe stato altro che onde e colpi d’acqua violenta sugli scogli delle sue ginocchia. L’attrito le avrebbe arrossate, mentre con la schiena arcuata avrebbe reagito colpo su colpo, assecondandolo e sfuggendogli alternativamente. Senza mai allontanarsi così tanto da perderlo.
La mano le scivolò nell’inguine.
Bussavano alla porta, a volte. E l’ansia accelerava l’onda del piacere compresso tra il medio e la conca del bidè. “Arrivo!”, gridava. E non mentiva.
Quella volta raccontò al prete che giocava a fare la puttana e lui le chiese con sprezzo se non avesse di meglio. Così tirò fuori la cuginetta dai capezzoli bruni che le metteva le mani nelle mutande di cotone bianco e giocava ad amarla, come l’uomo di gesso e cemento che oggi la spoglia.
Nella concitazione o la sorpresa, ma di più per la voglia, la voce in nero corresse dalla grata: cugino, cugino, mia cara. E lei annuì accogliendo nelle mani giunte la menzogna che addolciva lo spigolo di un peccato troppo lungo da sputare. Troppo innocente da giustificare.
Lui non l’aveva mai costretta a confessare. Ma le chiedeva qualche volta di infilarsi tra le tette un’altra, così tanto per cambiare. Così tanto per guardare. Annie la sapeva leccare, aveva gli orecchini a cerchio e in mezzo agli occhi un naso da cane. Fiutava l’alito propizio e dibatteva il culo al centro giusto del suo angolo visuale. Il voyeur stravaccato tra cuscini e vino la vedeva sobbalzare al ritmo del suo corpo scosso dal via vai della sua mano.

Il fotogramma sbilanciato dall’arto tremante di un operatore ormai al tappeto, Annie. Una lingua che tagliava la seta. Annie, Annie, vento da amare. Annie vendetta di una donna massacrata da uno sguardo senza dita per accarezzare. Annie, i capelli intrecciati ai suoi peli, Annie conosceva le coordinate che certe donne mandano a memoria e che qualche uomo ignora. Annie capiva, sapeva, Annie la sapeva aspettare.

Cominciò a strofinare piano. Sentì le asperità, le depressioni, le pareti cedevoli intorno alla fessura. Gengive senza denti sotto le labbra gonfie.

L’avrebbe risucchiato tra le cosce e anche così l’avrebbe baciato prolungando il risucchio della bocca spalancata, mentre le orecchie avrebbero aspettato le parole che non vennero mai.

Forgiò la mano umida come una coppa incrinata e si lasciò sentire scorrere tra le fessure. Scorreva via. Era il suo rantolo e il suo respiro, era l’immobilità ed ancora una scossa convulsa, era liquida e trasparente e attaccaticcia e scivolosa e calda. Era la pioggia che rigava il vetro e il filo di bava dall’angolo sinistro del suo capo riverso. Pianse saliva e sangue.
Immaginò Annie annusare il vento, sentì il vento far fremere il cielo, vide il cielo appannarsi d’un tramonto d’inverno. Sentì lo schianto delle ginocchia sul legno. Dietro la grata un silenzio sospetto. Padre, ho peccato.
Scivolò dalla sedia. La sedia scivolò capottando sulla fissità attonita del suo ultimo sguardo. Lo scavalcò. L’avrebbe coperto con un lembo di luna tagliato dalla finestra, incollato nell’angolo in cima.

A riavvolgere il nastro del tempo non si trovava alba. Nessuna feritoia per lasciar trapelare visioni. Tutti gli atti d’amore pure allucinazioni.

Non c’era stato spazio, non c’era stato tempo, non c’era stato scampo. S’era fermata alla porta del bagno, era rimasta inchiodata nel legno, cemento e gesso e se parli poi è peggio. Si accarezzò ancora lentamente le spalle, si scosse via dal viso il viso immaginato, scrostò la ruggine pietosa dell’inganno dalla curva accidentata del suo copro stanco. Tutto svanì, si riavvolse nel gorgo e scivolò veloce nello scolo di una fantasia innocente. L’uomo che non aveva avuto, che non avrebbe amato. Il corpo fiero e acerbo che non l’aveva conosciuta, che forse l’avrebbe sprezzata e non le era rimasto che un sogno e il profilo inesistente di un amore giovane e nudo. Le fantasie ricami strappati. Il suo sangue sull’altare di un’infanzia di ebano e marmo. La vendetta affidata ad un vento coi capelli lunghi e la lingua di seta depose le armi e si sciolse come un teschio di cenere e cera.

Si voltò, sintonizzandosi sull’onda lunga di un brivido profondo. Gli scorse le braccia nodose scomposte nella posa estrema ed oscena. Ripassò tra quelle dita viola le sbarre familiari dell’antica unica gabbia.
Ora era nel vento, ora ne era fuori e fuori, fuori pioveva.

Non sono qui per pentirmi, dirà. Poserà con cautela un salmo, un’orazione di ringraziamento sul grembo scuro e unto della tonaca stropicciata. La sua voce scuoterà la grata. Ho ucciso mio padre. Ho ucciso, padre mio – la correggerà per questa volta ancora l’uomo in nero.
Ed ora lei annuisce accogliendo nelle mani giunte la menzogna che addolcisce lo spigolo di un peccato troppo lungo da sputare. Troppo innocente da perdonare.

(RitaMazzocco – Mas-calzoni e gonne © ottobrezero4)

14 giovedì Ott 2004

Posted by zaritmac in Uncategorized

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Uno sguardo


Planò lentissimo.
Seguendo la traiettoria che congiungeva le sue ciglia umide alla cintura sottile dell’orizzonte.
Indugiò.
Per la frazione d’istante contenuto tra lo schiudersi d’ali delle sue palpebre e un punto intermedio tra l’esistente e il divenire.

Poi, s’abbassò.
Perdendo quota in discesa obliqua verso la frangia iridescente che l’avvolse.
La pozza opalescente l’annegò.

Senza omettere di mostrargli il baluginio di un raggio di sole fuori strada nella lente rifrangente del suo iride a spicchi.

(RitaMazzocco – Brevissimi © aprilezero4)

07 giovedì Ott 2004

Posted by zaritmac in Uncategorized

≈ 27 commenti

Spine nel vetro

Si ferma dinanzi allo schermo e comprende.

Che è lui a guardarla.
Se abbassa gli occhi lo ritrova lì quando si decide ad affrontarlo ancora.
Lampeggia un’immobilità muta che minaccia di incrinare il vetro e scorrere come sangue bianco sulle sue gambe piegate.

Tende la mano piano.

Ogni dito sfiora ad una ad una le lettere che vi restano confitte come spine. Le stacca. Non spegne l’incubo ma lo confonde nel singhiozzo prolungato di un reset.
Rimane a lungo muta. Resta inchiodata con le ciglia saldate ai punti, spezzate dalle lame di ogni virgola, falci che recidono i fiotti ribelli di lacrime informi. Solchi indelebili tra lo sguardo e il respiro sospeso.
Fioriscono nei giardini del dolore i fiori bianchi del silenzio.
Confessioni a pioggia nutrono foglie di palma a forma di carezza e scavano altrove buche nel terreno smosso. Nubifragi e secche. Arcipelaghi di foglie alla deriva e liane zuppe di resina e rugiada. Colla e bava di lumaca, per attaccarsi e scivolare via.
Spalanca il ventre agli spifferi di venti possenti e nell’incresparsi della pelle traslucida intravede tracce taglienti di passati cocenti e di futuri possibili.
Si raggomitola.
Si parla e si ascolta e negandosi afferma.
Cala il sipario della gonna e blocca le gambe sulla croce di un crocevia non attraversato.
Conserta su una preghiera negata, su un precetto impossibile. Ferma al centro di una menzogna, le dita sugli occhi, non vedendo si crede non vista. Ma confitta nell’imbuto di una clessidra percepisce la sabbia del tempo inaridirle le dita.
Affronta la notte.
Sente i fantasmi correre a rifugiarsi a frotte nelle intercapedini dei sogni. Agghiacciante resa. Irrimediabile.
Aspetta un figlio che svanisce all’alba.
Rimesta nella fila che la respinge al margine.
Soppesa l’entità delle ferite dai singhiozzi implacabili.
Al mattino scorge le nocche livide dei colpi smarriti sferrati sul vetro.
Una marionetta spezzata tra le mani fragili. La stringe, scomponendola, rendendola ulteriormente oscena e teneramente tragica. Disarmata e inerme. Nel petto cavo le schegge del suo legno.
Prova tutte le tonalità del silenzio, ma la scena trema e la polvere del fondale incollato con ghiaccio e saliva le ridisegna l’ombra sull’impiantito che rimbomba in un’eco che parla solo a sé.

…

(Avete bussato così forte e così a lungo da incrinare i cristalli di una teca dove avevo messo a dormire una Biancaneve spaventata dai baci a denti aguzzi della realtà.

Non potevo non tornare per un istante ad inchinarmi, bagnandomi i piedi delle mie stesse lacrime scivolate nel chinarmi, nel porgervi un vassoio con un foglio piegato che non serve (a) spiegare.
Ci sono cose che si perdono e poi magari un giorno saltano fuori da sotto un divano e raccogliendole ci chiediamo come abbiamo fatto a farne per tanto tempo a meno, dimenticando nella gioia del ritrovamento i motivi che ci avevano spinto a sferrare loro un calcio discreto per nasconderle alla vista e fingerle sparite o mai esistite. Ecco, forse un giorno zaritmac salterà fuori da un angolo inaspettato di me e mi sarà facile accarezzarla. Come in questi giorni, senza che lo sapessi, senza che vi vedessi, voi siete tornati e ritornati ancora a carezzare me.
)

(Rita)

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