Gravità

A certe donne la vita non lascia altra scelta che riavvolgersi dall’interno e decorare con saliva e sangue le pareti del tunnel da abitare.
Così si abituano a cadersi dentro. E spesso la gravità tira giù la loro anima fino a che rotolando si blocchi nell’incavo delle cosce serrate da una stantia e distratta abitudine al pudore.
Così camminano strusciandosi le gambe intorno al cuore. Ci infilano due dita per toccarlo, per sentirlo battere ancora, si titillano i ricordi tenendoli serrati nelle pieghe della carne come aborti partoriti.
Strusciano i palmi sui sogni e con due dita li ricacciano dentro nel buio paradiso di un’innocenza rivendicata, di un desiderio inconfessato che finisce per scoppiare sulla punta di un’unghia sapiente e spalmarsi prosciugato e incerto sul lembo interno e morbido di un anonimo slip.
E il mondo fuori piove. Come un sasso solo, nella sua gravità.
La sentì collassare sulla sedia. Sembrava crescere e dilatarsi nel dilagante e dolciastro calore della carne che lentamente arde. S’apriva. Una conchiglia al fuoco. Cedeva contro il legno, tremula.
Le labbra si schiusero, diventando umide. Da bambina lo faceva spesso così. A cavallo di una sedia. Ma questa volta lui aveva un viso. E che viso! Sfacciato e insolente come un bambino imbronciato, ma quando lo prendeva nella mano e le si avvicinava senza ammettere repliche erano gli occhi a diventargli più duri. E allora lei li chiudeva, aspettando di sentire dal sudore del suo palmo dove sarebbe iniziato l’assalto. Con la mano tra i capelli lui l’avrebbe fatta piegare con la sola forza di un inespresso comando. Se si fosse diretto alla feritoia tra i suoi peli, lei gli avrebbe spalancato le gambe come burro fuso sotto la lama ardente della sua mano sicura. Una mano sulla rotondità dei fianchi e allora gli avrebbe rivolto le spalle trattenendo il respiro e già completamente arresa. Avrebbe indugiato un istante prima di varcare la soglia tra dolore e piacere, poi non sarebbe stato altro che onde e colpi d’acqua violenta sugli scogli delle sue ginocchia. L’attrito le avrebbe arrossate, mentre con la schiena arcuata avrebbe reagito colpo su colpo, assecondandolo e sfuggendogli alternativamente. Senza mai allontanarsi così tanto da perderlo.
La mano le scivolò nell’inguine.
Bussavano alla porta, a volte. E l’ansia accelerava l’onda del piacere compresso tra il medio e la conca del bidè. “Arrivo!”, gridava. E non mentiva.
Quella volta raccontò al prete che giocava a fare la puttana e lui le chiese con sprezzo se non avesse di meglio. Così tirò fuori la cuginetta dai capezzoli bruni che le metteva le mani nelle mutande di cotone bianco e giocava ad amarla, come l’uomo di gesso e cemento che oggi la spoglia.
Nella concitazione o la sorpresa, ma di più per la voglia, la voce in nero corresse dalla grata: cugino, cugino, mia cara. E lei annuì accogliendo nelle mani giunte la menzogna che addolciva lo spigolo di un peccato troppo lungo da sputare. Troppo innocente da giustificare.
Lui non l’aveva mai costretta a confessare. Ma le chiedeva qualche volta di infilarsi tra le tette un’altra, così tanto per cambiare. Così tanto per guardare. Annie la sapeva leccare, aveva gli orecchini a cerchio e in mezzo agli occhi un naso da cane. Fiutava l’alito propizio e dibatteva il culo al centro giusto del suo angolo visuale. Il voyeur stravaccato tra cuscini e vino la vedeva sobbalzare al ritmo del suo corpo scosso dal via vai della sua mano.
Il fotogramma sbilanciato dall’arto tremante di un operatore ormai al tappeto, Annie. Una lingua che tagliava la seta. Annie, Annie, vento da amare. Annie vendetta di una donna massacrata da uno sguardo senza dita per accarezzare. Annie, i capelli intrecciati ai suoi peli, Annie conosceva le coordinate che certe donne mandano a memoria e che qualche uomo ignora. Annie capiva, sapeva, Annie la sapeva aspettare.
Cominciò a strofinare piano. Sentì le asperità, le depressioni, le pareti cedevoli intorno alla fessura. Gengive senza denti sotto le labbra gonfie.
L’avrebbe risucchiato tra le cosce e anche così l’avrebbe baciato prolungando il risucchio della bocca spalancata, mentre le orecchie avrebbero aspettato le parole che non vennero mai.
Forgiò la mano umida come una coppa incrinata e si lasciò sentire scorrere tra le fessure. Scorreva via. Era il suo rantolo e il suo respiro, era l’immobilità ed ancora una scossa convulsa, era liquida e trasparente e attaccaticcia e scivolosa e calda. Era la pioggia che rigava il vetro e il filo di bava dall’angolo sinistro del suo capo riverso. Pianse saliva e sangue.
Immaginò Annie annusare il vento, sentì il vento far fremere il cielo, vide il cielo appannarsi d’un tramonto d’inverno. Sentì lo schianto delle ginocchia sul legno. Dietro la grata un silenzio sospetto. Padre, ho peccato.
Scivolò dalla sedia. La sedia scivolò capottando sulla fissità attonita del suo ultimo sguardo. Lo scavalcò. L’avrebbe coperto con un lembo di luna tagliato dalla finestra, incollato nell’angolo in cima.
A riavvolgere il nastro del tempo non si trovava alba. Nessuna feritoia per lasciar trapelare visioni. Tutti gli atti d’amore pure allucinazioni.
Non c’era stato spazio, non c’era stato tempo, non c’era stato scampo. S’era fermata alla porta del bagno, era rimasta inchiodata nel legno, cemento e gesso e se parli poi è peggio. Si accarezzò ancora lentamente le spalle, si scosse via dal viso il viso immaginato, scrostò la ruggine pietosa dell’inganno dalla curva accidentata del suo copro stanco. Tutto svanì, si riavvolse nel gorgo e scivolò veloce nello scolo di una fantasia innocente. L’uomo che non aveva avuto, che non avrebbe amato. Il corpo fiero e acerbo che non l’aveva conosciuta, che forse l’avrebbe sprezzata e non le era rimasto che un sogno e il profilo inesistente di un amore giovane e nudo. Le fantasie ricami strappati. Il suo sangue sull’altare di un’infanzia di ebano e marmo. La vendetta affidata ad un vento coi capelli lunghi e la lingua di seta depose le armi e si sciolse come un teschio di cenere e cera.
Si voltò, sintonizzandosi sull’onda lunga di un brivido profondo. Gli scorse le braccia nodose scomposte nella posa estrema ed oscena. Ripassò tra quelle dita viola le sbarre familiari dell’antica unica gabbia.
Ora era nel vento, ora ne era fuori e fuori, fuori pioveva.
Non sono qui per pentirmi, dirà. Poserà con cautela un salmo, un’orazione di ringraziamento sul grembo scuro e unto della tonaca stropicciata. La sua voce scuoterà la grata. Ho ucciso mio padre. Ho ucciso, padre mio – la correggerà per questa volta ancora l’uomo in nero.
Ed ora lei annuisce accogliendo nelle mani giunte la menzogna che addolcisce lo spigolo di un peccato troppo lungo da sputare. Troppo innocente da perdonare.
(RitaMazzocco – Mas-calzoni e gonne © ottobrezero4)