Mujer de madera
Nella sala degli specchi le figure si moltiplicano e lo spazio sprofonda in se stesso, e s’espande nello scoppio lento.
Collassa il tempo su un’amplificazione che lo rende profondo e cupo e claustrofobico come un tubo lungo dentro il quale fischia il vento e suona un suono distorto, acuto.
“Il tango è un pensiero triste che si balla”
E lei non balla la musica. Ascolta la sua tristezza. La sua sconfinata tristezza. Balla la sua sconfinata tristezza e ad ogni giro vi affonda, le sue caviglie hanno la filettatura di quella sabbia mobile che l’accoglie.
Balla la sua sconfinata tristezza. Balla la sua sconfinata tristezza. Sta abbracciata alla sua sconfinata tristezza. Aderisce alla sua sconfinata tristezza e la sua sconfinata tristezza le scorre in ogni fibra, come linfa; come se lei fosse legno. Legno che balla. Legno. Una donna di legno. Ma di quelli teneri e dolenti. Quelli il cui lamento si può ascoltare negli scricchiolii minimi che rendono inquiete la case, interrompono le notti, fanno sobbalzare i respiri regolari su dossi improvvisi e fanno aprire gli occhi.
I legni che dolgono mormorando sotto i passi, ignorati.
Legno che balla. Ma leggero, legno come di foglia secca che sfrigola nello schiaffo del vento. Nell’abbraccio del vento.
La musica è vento. Lei è nel vento. Lei è vento. In un dolore sordo che è la modulazione di una sola nota in un riverbero infinito, ininterrotto. E lei è la musica.
Lei è la musica. Il pensiero di quella musica triste che la percorre con l’intensità di un dolore che fa vibrare la cassa armonica dei fianchi. Che fa vibrare le pareti e si allarga come un’onda. Schizza sul pavimento ad ogni passo; dilaga. E la sala la sente. La sala ondeggia della sua tristezza. La stanza degli specchi è il ponte di una nave che il suo dolore contenuto sospinge. Nave a vapore di respiri profondi, e muti.
La gente intorno, quella seduta, che balla con gli occhi il ballo degli altri e tace sorda d’invidia lieve, la gente intorno non le guarda i piedi inquieti. Segue sorpresa gli occhi chiusi, serrati in uno scoppio di pianto che non esplode, ma è infiltrato nelle pieghe dell’espressione del suo viso, con un’intensità che spiazza.
E’ un’onda d’urto. I ballerini sono argini che a stento la trattengono, eppure la contengono appieno, perché non c’è più musica fuori di lei. E’ lei la musica.
Non sente più il suo corpo. Le si è staccato. E lei balla la musica che s’è presa il suo corpo che s’è perduto e sciolto in una tristezza sconfinata che la balla.
E la musica è vento, e lei è vento e pioggia fusa e rimbalzo in pozzanghera di rimpianto che piange senza lacrime nel corrugarsi delle labbra sospese nella scia che il corpo lascia, incandescente nell’aria della sala. Un’onda.
E il suo corpo è vento. Un pensiero triste. Il suo corpo è un pensiero triste. Un pensiero di sconfinata tristezza. “Io non ho corpo. Io sono legno.” E’ legno che sfrigola nell’incendio di un pensiero triste come la musica, di un pensiero lungo quanto la musica, di un pensiero che è tango e il tango non c’è. Non c’è.
Ogni giro è un giro perfetto. Le braccia che la portano ne hanno rispetto come di una teca fragile che splenda di tristezza infinita in una luce opaca che abbaglia.
Ogni giro è perfetto. Come la sua sconfinata tristezza. Tristezza, tristezza, tristezza, tristezza una nota insistente, incantata eppure mobile su variazioni inaudibili che le scorrono tra le fibre.
Non è nel tango. Lei non è nel tango. Lei non sarà mai più nel tango. Lei odia il tango. Ne ha perso il senso dentro il nonsenso che dilaga dentro il pensiero triste che la balla.
Lei odia il tango. Lascia che la percorra la scoperta viva che si può ballare un pensiero. E un pensiero può ballarti. Occhi serrati. Occhi serrati, labbra strette e l’intensità dell’espressione di un viso triste che sconfina oltre gli specchi. Dietro gli specchi.
Balla. Balla dietro gli specchi. Dentro gli specchi. Non è nella sala. E’ negli specchi. Come fuori dalla sua vita. Vive fuori dalla sua vita. E il suo respiro la respira, la risucchia.
Lascia docile che le si artiglino le mani d’uomo sulla carne che lo specchio riflette. Lui si guarda toccarla. Lei non sente. Lascia, sperando che si facciano artigli ed unghia ed ossa scheggiate a cute le dita che la stringono. Che ne tocchino il sangue intingendosi nella sconfinata tristezza che la balla.
”Il tango è un pensiero triste che si balla.”
La sala degli specchi beccheggia. Il legno sotto i piedi impara e imita lo scricchiolio della donna-legno. E gli specchi vanno in frantumi in uno sfrigolio di cristalli, frammenti infinitesimali che la spargono nella sala come coriandoli ridotti a coriandoli. Cenere frantumata in polvere sottile. Segatura umida che il vento fatica a contenere nel respiro. E l’eco sprofonda con un tonfo lieve, una piuma che scrive come sotto le candele roche d’un tempo una parola sottile. Un pensiero triste. Di sconfinata tristezza. Que hasta se puede bailar.