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zaritmac

~ La mia vita è una parola che ho impiegato tutta la vita a pronunciare.

zaritmac

Archivi Mensili: aprile 2008

24 giovedì Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

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Tag

i-eri - passato remoto, ritango - avverbio di due tempi, sangre y nieve - negazioni

Mujer de madera

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Nella sala degli specchi le figure si moltiplicano e lo spazio sprofonda in se stesso, e s’espande nello scoppio lento.
Collassa il tempo su un’amplificazione che lo rende profondo e cupo e claustrofobico come un tubo lungo dentro il quale fischia il vento e suona un suono distorto, acuto.

“Il tango è un pensiero triste che si balla”

E lei non balla la musica. Ascolta la sua tristezza. La sua sconfinata tristezza. Balla la sua sconfinata tristezza e ad ogni giro vi affonda, le sue caviglie hanno la filettatura di quella sabbia mobile che l’accoglie.
Balla la sua sconfinata tristezza. Balla la sua sconfinata tristezza. Sta abbracciata alla sua sconfinata tristezza. Aderisce alla sua sconfinata tristezza e la sua sconfinata tristezza le scorre in ogni fibra, come linfa; come se lei fosse legno. Legno che balla. Legno. Una donna di legno. Ma di quelli teneri e dolenti. Quelli il cui lamento si può ascoltare negli scricchiolii minimi che rendono inquiete la case, interrompono le notti, fanno sobbalzare i respiri regolari su dossi improvvisi e fanno aprire gli occhi.
I legni che dolgono mormorando sotto i passi, ignorati.

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Legno che balla. Ma leggero, legno come di foglia secca che sfrigola nello schiaffo del vento. Nell’abbraccio del vento.
La musica è vento. Lei è nel vento. Lei è vento. In un dolore sordo che è la modulazione di una sola nota in un riverbero infinito, ininterrotto. E lei è la musica.
Lei è la musica. Il pensiero di quella musica triste che la percorre con l’intensità di un dolore che fa vibrare la cassa armonica dei fianchi. Che fa vibrare le pareti e si allarga come un’onda. Schizza sul pavimento ad ogni passo; dilaga. E la sala la sente. La sala ondeggia della sua tristezza. La stanza degli specchi è il ponte di una nave che il suo dolore contenuto sospinge. Nave a vapore di respiri profondi, e muti.
La gente intorno, quella seduta, che balla con gli occhi il ballo degli altri e tace sorda d’invidia lieve, la gente intorno non le guarda i piedi inquieti. Segue sorpresa gli occhi chiusi, serrati in uno scoppio di pianto che non esplode, ma è infiltrato nelle pieghe dell’espressione del suo viso, con un’intensità che spiazza.
E’ un’onda d’urto. I ballerini sono argini che a stento la trattengono, eppure la contengono appieno, perché non c’è più musica fuori di lei. E’ lei la musica.
Non sente più il suo corpo. Le si è staccato. E lei balla la musica che s’è presa il suo corpo che s’è perduto e sciolto in una tristezza sconfinata che la balla.
E la musica è vento, e lei è vento e pioggia fusa e rimbalzo in pozzanghera di rimpianto che piange senza lacrime nel corrugarsi delle labbra sospese nella scia che il corpo lascia, incandescente nell’aria della sala. Un’onda.
E il suo corpo è vento. Un pensiero triste. Il suo corpo è un pensiero triste. Un pensiero di sconfinata tristezza. “Io non ho corpo. Io sono legno.” E’ legno che sfrigola nell’incendio di un pensiero triste come la musica, di un pensiero lungo quanto la musica, di un pensiero che è tango e il tango non c’è. Non c’è.
Ogni giro è un giro perfetto. Le braccia che la portano ne hanno rispetto come di una teca fragile che splenda di tristezza infinita in una luce opaca che abbaglia.
Ogni giro è perfetto. Come la sua sconfinata tristezza. Tristezza, tristezza, tristezza, tristezza una nota insistente, incantata eppure mobile su variazioni inaudibili che le scorrono tra le fibre.
Non è nel tango. Lei non è nel tango. Lei non sarà mai più nel tango. Lei odia il tango. Ne ha perso il senso dentro il nonsenso che dilaga dentro il pensiero triste che la balla.
Lei odia il tango. Lascia che la percorra la scoperta viva che si può ballare un pensiero. E un pensiero può ballarti. Occhi serrati. Occhi serrati, labbra strette e l’intensità dell’espressione di un viso triste che sconfina oltre gli specchi. Dietro gli specchi.
Balla. Balla dietro gli specchi. Dentro gli specchi. Non è nella sala. E’ negli specchi. Come fuori dalla sua vita. Vive fuori dalla sua vita. E il suo respiro la respira, la risucchia.
Lascia docile che le si artiglino le mani d’uomo sulla carne che lo specchio riflette. Lui si guarda toccarla. Lei non sente. Lascia, sperando che si facciano artigli ed unghia ed ossa scheggiate a cute le dita che la stringono. Che ne tocchino il sangue intingendosi nella sconfinata tristezza che la balla.

”Il tango è un pensiero triste che si balla.”

La sala degli specchi beccheggia. Il legno sotto i piedi impara e imita lo scricchiolio della donna-legno. E gli specchi vanno in frantumi in uno sfrigolio di cristalli, frammenti infinitesimali che la spargono nella sala come coriandoli ridotti a coriandoli. Cenere frantumata in polvere sottile. Segatura umida che il vento fatica a contenere nel respiro. E l’eco sprofonda con un tonfo lieve, una piuma che scrive come sotto le candele roche d’un tempo una parola sottile. Un pensiero triste. Di sconfinata tristezza. Que hasta se puede bailar.
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18 venerdì Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

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noi due - congiuntivo presente, sangre y nieve - negazioni, se-nza - disgiuntivo ipotetico

Fuori tempo

ballerita

Le immagini tornano sulla punta dei piedi. E sono ballerine di Degas.
Immobili, in un’istante di grazia. Sfumate in colori che danzarono nel tempo rapido di un tocco di pennello, e che ora ciascuno, fuori dal quadro, guarda nelle tonalità del suo personale dolore.
E non c’è musica. Nè danza. Nè allegria.
La magia inutile di un’immagine ferma, maledettamente muta.
Dove tendere la mano non serve a ridare loro una voce mai avuta.

manodellegrazie

(C’è una cosa che io voglio tu sappia.
Posso scriverla forte, se non dirtela piano.
Non ho scherzato nemmeno una volta
di tutte quelle in cui ti ho detto “ti amo”.)


[Al corsivo, in corsivo vorrei aggiungere che è dentro quel corsivo la ricchezza che ho dato e mi resta. Ma dirlo senza rabbia, con un amore che non scolora, non raffredda. Ché l’amore, dopotutto, non c’è una volta, una volta soltanto che non sia in fondo soltanto affar nostro.
Perché potete portarvi via, amori, amori miei di sempre e d’ora e di mai e di domani e di ieri, l’amore che non m’avete dato, quello che v’è finito, quello le cui dosi avete sbagliato, eppure quello che avete per un po’ coltivato sotto un cartellino che aveva il nome mio.
Potete portarvi via l’amore vostro, qualunque cosa esso sia stato o sia. Ma non potrete portarvi via l’amore che v’ho amato. Quello resta mio. Forse non ve l’ho dato. Solo prestato, fino a quando non l’avete usato, e poi buttato.
Ci sono ricchezze che si contano sulla punta di mille lacrime, a voi bastano le punte di dieci o cinque dita per un addio. E io sono un giardino che per sé ed in sé sempre ed ancora e ancora vi coltiva. Voi una strada che svolta e scorre via sul letto grigio e duro dell’asfalto, fiori strappati che vi siete portati via. Tutte le volte che vorrete, troverete qui sempre lacrime generose abbastanza da innaffiarvi.
Perché l’amore è affar nostro, in fondo. Voi portatevi pure via il vostro. A me resta il mio.]

15 martedì Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

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noi due - congiuntivo presente, treni - complemento di luoghi

Secondo grado

fotodimax

Per illudersi di poter cambiare il futuro,
bisogna prima immaginare d’averne uno.
Noi che possediamo presenti infinitesimali
non siamo attrezzati di fiati abbastanza lunghi
per pronunciare “domani”.

Non smette di piovere. Non piove forte. E’ un’acqua sottile come la malinconia. Un’acqua gentile che forse ha solo voglia di far compagnia. E diventa invadente. S’infiltra nelle maniche, bagna la nuca, i capelli.

Sulla panca di pietra, la donna con l’impermeabile arancione aspetta un autobus che non farà mai quel tragitto, e non è nemmeno un autobus. E non è un tram. E’ un uomo che si chiama desiderio e che non passerà. E lei lo sa.
Siede. Incurante se la pietra è fredda. Siede e sta zitta. A due passi da un fioraio, a due metri dalla piazza, a due secoli da un vento di bandiere e di finestre accese.
Passano ragazzi. In file, a frotte, soli. Nessuno rallenta, nessuno indugia contro il portone chiuso più in là.
E l’impermeabile leggero aspetta. Incurante del fatto che è fredda, sempre più fredda, questa sera.
Rabbrividiscono i passanti. Qualcuno va più in fretta. Adesso piove. La donna con l’impermeabile arancione sta seduta. La pietra della panca è fredda. Lei sta seduta. Non è che aspetti. Sta. E il freddo lo sente. Ma non lo ascolta. Non sa rispondere quando si chiede il senso di quello stare là. A due metri dalle finestre che si son spente, a due passi dal portone chiuso sotto un vento umido di bandiere, a due secoli da una piazza che non è Venezia ed è triste di più.
Fa sempre più freddo, ma lei non reagisce. Eppure lei ce l’ha quel freddo. Ha freddo e il collo bloccato. Ha freddo e il cuore bloccato. E tra le carte colorate, le penne e i display, annota mille note frantumate. Col disagio di essere lì. Senza saperne il senso. E un senso di perdita che le dilaga tra la schiena e il velo sottile di un impermeabile arancione.
Non ci sono borse di cuoio a siglare i prezzi pagati per le ore attese. L’uomo che non aspetta non verrà. E se passasse, lei non lo riconoscerebbe, e lui fingerebbe di non vederla sedere là. A due secoli da un cespuglio di bandiere.
Non si guarderebbero per non vedersi. E lasciarsi sfiorare da un uomo da non guardare che le passi accanto, è il significato profondo e pesante di quell’attesa senza senso, senza voce e senza allegria.
Esserci per non guardarlo passare. Essere lì perchè è per quello che è lì, dentro quella città liquida di fiume e pioggia.
Una carezza di sguardo a spalle che le passano oltre. Una ricompensa d’attimi per un baule di tempo dedicato, delicato e struggente.
La donna siede perchè non ha orologi e ha molto tempo. E ha molto freddo. Freddo che non sente. Seduta di pietra sulla panca spalle a muro dove l’uomo non passa, ma passa un altro, alto, con una valigia in mano.
E’ bello e la guarda. Le sorride di taglio, con gli occhi molto blu. Il tempo di passarle oltre, il tempo di entrarle in uno sguardo casuale come lei avrebbe voluto di lui.
E dentro l’impermeabile umido e sotto gli occhi di più, lei si mette a pensare. Agli anni che ha. Agli anni che le danno. Agli anni di galera. Alla colpa, all’espiazione, alla condanna, all’innocenza, alla prova, alla verità e alla menzogna.
E sospende il giudizio, attendendo un appello.
E fa freddo. Sì.
Fa freddo. Sì.

13 domenica Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

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Il canto dei giorni

foto di biancanera

I giorni del canto…
L’intensità dei nostri discorsi a tavola è pari solo a quella dei nostri silenzi a letto.
E tutto è canto, nel cantuccio segreto che il corso del fiume separa dal mondo.
Come se il passaggio dall’una all’altra riva consentisse all’impossibile di farsi magia.

07 lunedì Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

≈ 15 commenti

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noi due - congiuntivo presente

La conta dei giorni

A tre dita dall’alba. Notte tradita da un’insonnia lieve, che non stanca.
A due passi dal giorno, aspettando che passi e domani ritorni a farsi un passato recente di cui riparlare, nostalgia da coltivare. Innaffiatoi che traboccano umori, chimica di parole inzuppate di saliva e miele.
Tra le dita i vuoti strapieni di intese sospese rinviate al prossimo incontro.
Con le punte delle dita, invece, conto i giorni e le ore. Sulle dita conto le ore che conti.
Con le punte delle dita conti le ore e i minuti. Sulle dita conti i giorni che conto.
Con le dita contiamo le ore che contano.
A due spanne da un bacio, a due sorsi dal fondo di un bicchiere stracolmo che vuoteremo con la fretta di chi aspetta, con la calma lenta di chi ama con tenerezza intensa il tempo che coltiva e bagna e asciuga e strizza e stringe, e ferma e sospinge.
A due bracciate da una riva sorpresa, a due abbracci sospesi che il fiume dipinge di toni grigi e blu.
Ad un soffio dall’odore del vento che ci prepara un tappeto di foglie, per rotolarci insieme e fingerci semperverdi in fiore, ancora e ancora, a due dita dalle nostre dita, ad un pugno di passi a partire da ora.

E io vorrei comprarti il cielo

riflesso

Amo quel sedimento di tristezza che ti porti dentro.
Lo amo. Come il residuo denso sul fondo di un bicchiere che sembra lieve bere.
Amo le cose che forse altri non vedono, e come tu mi vedi.
E i tuoi occhi, e le ombre che hai dentro, e i riflessi del sorriso che spendi per regalarmi una ruga che ti scrive sul viso che ci spartiamo il tempo, pure quando lo spazio è largo, e tutto il resto lontano.
Amo di te quello che forse altri non sanno, quello che hanno scordato, o magari l’ho inventato, e le parole che s’arricciano e sembrano volare leggere e invece cadono a picco come una stella che accendi per me e che mi cade in grembo, bruciandomi dentro. Come fa la tristezza quando è roca e fa vibrare con una nota lunga, struggente e inutile come un immenso amare. Un suono distante, un canto differito, un riverbero che striscia il cuore e poi svanisce, muore, tace.

03 giovedì Apr 2008

Posted by zaritmac in Uncategorized

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Don’t

“Non piangere, troia, o sarò costretto a punirti di nuovo. Fai la brava. Non costringermi a darti un’altra lezione. Quante volte devo insegnarti a non farti far male? Supplicarti di non farti far male? Piantala, stronza!”
Il sangue colava tra i due incisivi inferiori, quello di destra spezzato. La guancia tumefatta aveva il colore di una prugna marcia, il braccio pendeva dall’articolazione della spalla in una posizione innaturale. Era poco meno di un gemito il suono che le faceva vibrare le labbra gonfie. Una creatura ignobile che lo ricattava sanguinando ad ogni pugno, scricchiolando ad ogni calcio. “Guardala, Joe, non muore! Guardala: non si decide a morire. E’ una figata, Joe. Wow! Una bambola immortale. Una fottutissima troia immortale.”
Il cazzotto le colpì il centro del cranio. Questa volta la risposta non fu che un sussulto. “Posso fottermela all’infinito, Joe. Me la posso avvitare sul cazzo e sbatterla contro il muro e non muore. Guarda, non muore.”
I capelli gli si avvolsero intorno al polso come un cappio.” Che schifo! La vedi come fa? E’ un vero sballo, Joe. Il guaio è che non la smette di frignare. Si fa fare male, quella strafottuta troia. Lo fa per farmi sentire in colpa… Guardala, Joe, che occhi da canaglia… falla smettere, Joe, falla smettere. Non la voglio sentire.”
La spranga colpì la nuca. Una ciocca di capelli rimase attaccata al sangue sul taglio del metallo.
Inarcò la schiena, poi rimase immobile.
“Non guardarmi così, Joe. Ehi, amico, non guardarmi come se fosse colpa mia. Tu lo sai che se l’è voluta. Tu c’eri; non fare il bastardo, ora. Tu l’hai vista che non perdeva occasione per sbavarmi sangue sui piedi. Non si sapeva trattenere. Le ho spiegato cento volte, Joe, quanto mi irrita la sofferenza. E lei niente, amico, niente. Continuava a costringermi a farle male. Lo faceva per farmi star male, Joe. Le femmine sono strafottutissime troie, Joe. Non ce n’è una che ti sappia tener testa. Una che ti sputi sulla faccia mentre la colpisci. Una che ti morda le palle se cerchi di infilarglielo in gola. Una che … una che non pianga, Joe. Una maledettissima scrofa che non frigni come una cagna, Joe. Non hanno un briciolo di sensibilità, un’ombra di pudore. Porco Giuda, Joe, perché non ce n’è una che impari a stare zitta, una che capisca quanto mi fa male punirla? Nessuna, nessuna che voglia capirmi, Joe. … Mi toccherà portarla di là, insieme a quelle altre. Spogliala, Joe. E se si mette a tremare dal freddo, finiscila. Non posso sopportarlo, amico. Ehi, puttana, mi senti? Ho detto mi senti? Lo vedi, Joe? Ora sta zitta. Non lo sopporto. Controlla che non stia fingendo. Ci sono quelle capaci di fingersi morte… Alec mi ha raccontato che era finito in cella proprio perché una s’era nascosta sotto le altre e si era finta morta.
Non c’è niente di più pericoloso di una donna morta.

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