Viandanze

La strada digradava dolcemente, con una pendenza adeguata alle esigenze dei pensieri di tarda sera. Anche stavolta, lo spettacolo si era concluso con un nulla di fatto, e Walter tornava con la giacca di tela grezza poggiata sulle spalle e il colletto della camicia piegato all’indentro.
I quattro gradini che portavano alla piccola costruzione di pietra erano scivolosi di muschio. L’acqua li lambiva di giorno e la notte li ingoiava per raccontare storie da seccare con la salsedine al sole. Le salamandre a mezzogiorno confondevano le tracce spazzandole via con le loro zampe.
Virginia leggeva i grani di sale sul tavolinetto davanti all’Osteria del Gatto e rifiutava la moneta se era troppo amara la sorte. Una romanticheria cui non sapeva rinunciare, a dispetto dell’immensa miseria.
Si erano incontrati sulla riva una sera d’autunno e Walter l’aveva presa in braccio e calata dolcemente nell’acqua perché lei rabbrividisse a lungo e lui potesse più a lungo riscaldarla.
Da allora gli anni avevano scalfito molte pietre ed eroso muri e strade.
Nel villaggio si raccontava sottovoce che la malattia aveva morso Jacopo sul collo una notte che l’avevano lasciato solo a dormire nella cesta sotto il portico. Il latte di Virginia era inacidito, dopo quella notte, e Walter aveva perduto la cassetta dei trucchi, dimenticandola dietro una siepe.

Aveva pisciato sulle rose dopo aver spiegato a Virginia che doveva partire e una talpa era uscita nella notte e s’era portata nella tana le scarpette della donna, la cuffietta del bimbo e la sua cassettina di magie.
Gli anni erano passati succhiando gusci di lumaca e raccogliendo pochi soldi con lo spettacolo delle torce e delle catene. Virginia leggeva le mani e spargeva sali e vaticini sullo specchio dei destini.
La creatura restava seduta per ore nella stessa posizione; il capo reclinato su una spalla cambiava corso seguendo la luce del giorno come un girasole. Le manine raggrinzite grattavano la sabbia con un gesto sempre uguale, l’occhio destro rifletteva il contorno dell’olmo e la curva dietro il pozzo.

Nessuno osava toccarlo; solo qualcuno si azzardava a guardarlo e poi affrettava il passo.
L’escrescenza deforme sotto l’orecchio destro denunciava una capacità insolita d’ascolto. Ma la proboscide poggiava al suolo e l’unica voce che le interessava sentire era il gemito della terra madre, col ventre gravido di lombrichi e presagi.

Protetta dal sipario della notte, Virginia prendeva in braccio il bambino dopo aver fasciato le braccia di velluto e feltro. Lo cullava fischiando una nenia zigana e fissava la cataratta del suo occhio sinistro. Allora Jacopo cominciava a dondolarsi piano piano e la rugiada dell’alba li trovava avvinghiati, come un fungo alla caviglia di un albero.
Walter tornava con la giacca di tela grezza poggiata sulle spalle. L’acqua sui gradini della casa era già alta.

Nell’aria si spandeva un alito d’incenso; sulle agavi un velo di brina.
Non ebbe bisogno di guardare più distante del suo alluce affondato in un rivolo di porpora e fango. L’ultima frangia di un canto zigano sventolava impigliato nella coda caduta ad una salamandra nuda. Qualche traccia lieve restava sulla sabbia, cingeva i piedi dell’olmo, si specchiava nel pozzo.
Lentamente Walter sfilò dalla sacca di cuoio un libro gualcito, risucchiò un goccio di vento, lanciò in avanscoperta un fischio leggero tra le dita di legno e le labbra d’ortica. Concesse qualche istante all’eco, ma lei non tornò. Accordò un’estrema occasione all’orecchio teso a percepire un dondolio nell’aria immobile. Ma non udì che il lamento indaffarato di un silenzio senza posa.

Allora inforcò gli occhi di dentro sul naso spuntito e cominciò a leggere il libro a pochi passi dalla fine: “… e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche”.