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Quando chiusero l’ultima fabbrica le rondini erano già andate via da qualche mese.

E le campane spaventavano i corvi, solo i corvi.

Non li posso contare, diceva, non li riesco a contare! e le mani gli tremavano mentre cercava di inseguirsi le dita e perdeva il segno ad ogni indice e cominciava daccapo e daccapo e daccapo.

Nonlipossocontare era un mormorio disperato e tremulo, come le labbra un po’ schiuse, ed umide, e livide agli angoli passati dei morsi dati, graffiate dal vetriolo dei monosillabi sfiniti da ineluttabili certezze.

Quando chiusero l’ultima fabbrica pioveva senza argini, perché le strade si erano dissestate nello scalpiccio dei mille piedi in marcia, inutili. Proteste in fila a pugni alzati, scivolati inascoltati nel fango. Increduli fino all’ultimo passo. Non può accadere quello che accade. Nemmeno mentre accade. E la pioggia lava e scorre.

Tutto scorreva. Tutto correva. E che tutto fosse un tutto senza sconto rendeva quella corsa immobile.

La caduta del mondo che cade con chi cade. E così mai smette, mai smette. Il baratro s’abbassa e la traiettoria si paralizza nel precipitare eterno. Di tutto. Mai s’accorcia la distanza, mai si concede generosa la liberazione dello schianto.

E così che lui cade. Mentre chiudono l’ultima fabbrica e le sirene si sgozzano da sole, isteriche. E’ così che cade, in una posa oscena che stringe il cuore al centro e lo preme. Scomposto, è immobile nell’imitazione di un urlo divenuto burro nella frenesia del pianto, nell’agitata conta degli uomini soli, e chini, e curvi, e muti, e vuoti, e informi nelle tute inermi foderate di braccia immobili. Impotente declino. Una folla. Le orbite cave nostalgiche degli occhi dati in pegno al banco per comprarsi in cambio un grano di speranza e una busta di carta piena di una banconota sola.

Quando chiusero l’ultima fabbrica pioveva senza argini. Non posso contare, diceva, non riesco a contare! E le mani  roteavano a catturare come mosche le gocce. Gocce, gocce, gocce.

Così lo immaginava. Uno spaventapasseri meccanico con le molle spezzate nello sterno e le caviglie. Lei così lo immaginava, mentre sedeva su un sasso e dava le spalle alla sera appiccata sopra i tetti dell’intera città.