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Tutti quanti, nei finali, vissero felici e contenti
Quella storia del corvo. Quella terribile storia del corvo. Quell’uomo prigioniero del suo incubo, condannatosi a vivere la vita nella clausura della sua casa dietro le imposte serrate per non mostrare al mondo l’ignominia di un corvo attaccato sopra la sua testa che scopre – nel giorno della sua morte, aprendo finalmente per una sola, ultima volta, la finestra – che lì fuori, il mondo, è tutto popolato di uomini che portano tranquilli sulla testa un corvo. Quella storia.
Queste prigionie in un incubo, sono niente di fronte alle prigionie dei sogni.
I sogni sono tiranni implacabili. Non frustano, accarezzano e ci imprigionano senza mura, senza sbarre, servendosi della prigione di noi stessi, e di loro.
Oggi ho scoperto che la libertà più grande è quella da un proprio sogno divenuto col tempo prigione.
Crediamo di non poter più camminare, ci immaginiamo mutilati, ci dilaniamo nel terrore di toglierci dagli occhi le mani che ci proteggono dall’immagine di noi devastati sulla scia incandescente lasciata da una perdita, e invece vacilliamo alla luce improvvisa della deflagrazione che abbaglia e ferisce, come in un imprevedibile sollievo nel ritrovarci inaspettatamente e diversamente vivi. Liberi.
La coltivazione pluriennale di un sogno, di un amore, di uno status che sembra ineguagliabile, si tramuta sotterraneamente, col tempo, in interminabile agonia.
Ci proteggiamo con le braccia la testa quando comincia il crollo. E quando tutto è finito e non spira che una specie di silenziosa pace screziata di polvere, alziamo il capo sorpresi e ci accorgiamo che non avere più nulla da perdere, nemmeno un frammento di ciò che temevamo di più, ci affranca da noi stessi, come da un incantesimo durato secoli.
Non si ricomincia dalle macerie, si ricomincia dal vuoto. Non si conservano pietre angolari come reperti archeologici per modellarvi intorno nuove architetture. Si deve sperimentare lo strappo del nervo oltre che del muscolo, per accorgersi che la schiena è rimasta a lungo piegata sotto il fardello del proprio sogno e ancorata a picco al masso del proprio terrore di vederlo svanire.
Ci sono solo due modi per liberarsi dai sogni: realizzarli o esserne abbandonati per sempre.
Ogni terza via è una forma di schiavitù, una gabbia dorata col chiavistello bloccato da un incantesimo da noi stessi pronunciato.
I sogni servono a nutrire per anni, ma c’è un momento in cui si trasformano. Diventano parassiti, e si nutrono di noi. Si tramutano in maledizioni, catene, vincoli, incubi stupendi dove il terrore consiste nella paura di uscirne.
Ma i sogni prolungatamente custoditi nell’afa di serre inumidite da attese innaffiate a speranza, marciscono e ammorbano, contaminano l’intero terreno di coltura delle nostre vite.
I sogni sono fatti per liberarsene, al fine. Disinnescarli. Realizzandoli come cibi prelibati finalmente cotti e mangiati, digeriti e defecati. Consumandoli, come vini pregiati invecchiati al buio per anni ed infine versati, succhiati, ingoiati e metabolizzati nel sangue fino a diluirli negli scoli che depurano la carne, domani.
Se non ci liberiamo di loro, se non li espelliamo, magari realizzandoli, si impadroniscono di noi. Non siamo più noi a possederli, ma loro che ci possiedono. E non potremo mai più liberarcene finche non saranno loro a liberarsi di noi.
Oggi, vedo alle mie spalle una donna che porta i miei capelli ed ha i miei occhi avvolta intorno ad una amore come edera. Ritorta, piegata, schiava dell’incantesimo di un mago che se ne è andato tenendosi per se il segreto della formula magica per rompere il sigillo. Ed ero io, quel mago.
Travestita, ho scavato intorno una trincea riempiendo il mio corpo cavo come una fossa.
Non ho respirato per anni nel terrore di consumare tutto il fiato e morire soffocata.
Poi ho dovuto aprire prudentemente gli alveoli dei miei polmoni rotolatomi via in un colpo solo. E mi sono scoperta viva. Viva ed anfibia.
Straordinariamente ricca nella mia povertà improvvisa. Non c’è uomo libero più libero di un povero completamente povero.
Ogni possesso, anche quello di un sogno, peggio quello di un sogno, è un vincolo.
Non è il massimo della perdita possibile il maggiore dei mali possibile. Il maggiore dei mali possibile è la paura, l’attesa del massimo della perdita.
L’uomo senza testa non teme più la scure. Non teme la falce il prato senza erba. E la principessa, finalmente sveglia, è libera dal sogno di un bacio da sognare, e può ricominciare a vivere, esattamente quando il libro finisce.
Perché comincia alla fine esatta delle fiabe, la vita delle principesse, delle bestie e dei bambini che, una volta, erano di legno.
Tutti quanti, nei finali, vissero felici e contenti.
Così sto maturando questo disinnesco dell’orologeria dei sogni coltivati con una caparbietà troppo diventata simile a sé per essere ancora amore.
L’amore ha una data di scadenza sul fondo. Dopo quella data bisogna farne altro, o si trasforma. Diventa un morbo, una mania, un record da difendere, una maledizione dolcissima e implacabile, una consolante, irrinunciabile malattia.
Il destino lo sa che non c’è, talvolta, altra cura che l’estirpazione. Lo sa il podologo di fronte a un’unghia incarnita, lo sa il dentista dinanzi a un dente marcio, lo sa il chirurgo che scava anche la carne viva, intorno a quella necrotica, dentro una piaga da decubito.
Ecco, l’amore a un certo punto finisce per diventare una piaga da decubito. Ci si siede sopra, vi si resta stesi sopra e quello ci attacca la carne, se la mangia, diventa parte di noi diventando ogni giorno meno simile al sentimento e sempre più ad una mutazione genetica che divora.
Mi sono molte volte ribellata dentro di me ad ogni dichiarazione a favore del “cambiamento”. Il prigioniero del sonno, l’ergastolano con la palla al piede di un passato di piombo e miele vive come una minaccia il cambiamento, e la sua apologia è presagio, prima, complicanza patologica poi, di un male già iniettato in vena come tetano dalle forbici che gli hanno reciso la giugulare del sogno.
Ho vissuto l’apologia del cambiamento come “offesa personale”, dove si legga per offesa=ferita.
Minaccia frontale alla perpetuazione dello status quo nei panni di vestale superstite del fuoco di un passato sterilizzato dall’autoesposizione. Asettico, dunque, ma anche fatuo.
Poi la velocità dei vortici d’aria che mi hanno travolta le dita innalzate ad assi precarie a sostegno del residuo secco di una storia spaccatasi dentro da anni, al centro del tronco, mi ha costretta (o consigliata) di alzare con prudenza il viso e guardare, nei mulinelli del vento misto a polvere, dove erano state spinte le mie caviglie nella furia dell’uragano.
Mi sono trovata capace di alzarmi. Mi sono scossa le mani e massaggiato i polsi. Ho tastato con prudenza ogni parte di me per ritrovarmi, tutto sommato, illesa.
Ma con la sostanziale mutazione di stato che oggi mi è maturato in mano, l’agorafobia di una inconsueta libertà.
Che non è come banalmente appare una libertà da single. E’ una libertà da me, dalle mie trame, dalle mie magie per continuare a nutrire l’incantatore che suonava per mantenere incantato e vivo il serprente dentro di me. E in quel serpente, avevo finito, con gli anni, di infilarmi di centimetro in centimetro anche io, identificandomi con il mio sentire e il mio sentimento, incapace di strisciare oltre.
La mia indiscutibile presunzione, i miei occhi da mosca mi hanno sostenuta nel passo ulteriore.
E ho bevuto il siero del cambiamento previa radicale mimetizzazione nelle prospettive dell’uragano al fine di assorbirne quella parte che mi serve a mettere in atto la definitiva mutazione in un’altra forma. Così il cambiamento ha assunto anche per me un valore, di diverso segno, ma nella stessa direzione.
La creatura che sopravvive al diluvio universale, all’ecatombe, all’apocalisse è quella che è capace di mutare scoprendo dentro di sé le branchie, senza disconoscere le cicatrici lasciate dalle ali cadute.
Cancellare il passato, gettare nello scolo e nello scarico del lavello parole, pensieri, messaggi che provengono da lì, non appartiene alla mia struttura genetica.
Inorridisco al pensiero della capacità di cestinare una mail o buttare via lettere ancora sigillate in cestini veri o virtuali. Tuttavia sono ad un punto di svolta ad angolo così acuto che non posso indugiare a seguire il percorso retroverso delle linee già disegnate, ma devo mettere a fuoco i tratteggi che idealmente delineano il corso futuro, tuttavia senza evitare di operare un riciclo dei materiali accumulati in questi cinque decenni di vita che costituiscono buona parte della mia ossatura.
Le relazioni umane sono sostanziate di strati multimateriale. Immagino sempre che abbiano vita breve quelle tessute di una sola trama di filo, sebbene di colore acceso. Le relazioni sono tutte sottoposte ad usura e si autoconservano nella misura in cui ognuno degli strati fa da cuscinetto all’altro, cosicché, ad esempio, in tarda età e spenti i fuochi ormonali, siano l’attrito delle conversazioni e delle parole a mantenere accesi i falò, anche nella notte che scende.
Ora, io sono convinta di avere vissuto una relazione di altissimo spessore, nella quale il cementante unico rappresentato dalla comunicazione ha assunto una polifonia di forme totalizzante, capace di investire e coprire ogni campo e settore.
Gli uomini hanno dieci dita perché a perderne cinque potranno comunque conservare una certa capacità di presa e di manipolazione della realtà.
Così è l’amore. Una dicitura che secondo me è una convenzione e un lemma tanto ampio da diventare generico e vuoto di senso.
Naturalmente, ognuno è fatto di una stoffa. La mia è sostanziata di comunicazione; non dico “parole”, perché è di più.
Quello che dico è che c’è un nocciolo profondo in ogni relazione. Uno diverso per ciascuna relazione. Un nocciolo che è anche un’impronta. Intorno tutto il resto può perfino diventare coreografia, ma se estirpi il nocciolo, generi il crollo.
Il nocciolo della storia che ha cucito insieme tutti gli ultimi miei dieci anni è l’interrelazione, la comunicazione, la comprensione, la conoscenza, lo scambio.
Ora, la creatura emersa dalla lava rappresa dell’eruzione, l’organismo monocellulare rimasto a galleggiare nell’acqua dell’alluvione, il serpente nudo uscito dalla pelle secca dell’incantesimo rotto allo spezzasri del flauto, ha filtrato nelle branchie questo succo vitale della comunicazione e se ne è servita come balsamo sulle proprie mutilazioni, come colla per riattaccare frammenti, come cemento per riconnettere strade divenute divergenti. Su questa base, dall’alto di questa montagnola che si è eretta sopra il panorama della devastazione più irreversibile dello status quo, ho cominciato a lasciare che il sole mi asciugasse addosso i panni e le lacrime, non molte, negli occhi. E ho cominciato l’inventario del sopravvissuto, incappando, con una certa sorpresa, in spezzoni di catene infrante. Le ho riconosciute come quelle che mi legavano alla mia necessità, che credevo vitale, di tenere in vita un sogno, un amore.
Tagliato il cordone, dopo un’apnea, non mi sono ritrovata a boccheggiare, ma a respirare in altro modo la stessa miscela che sostanziava l’atmosfera del pianeta da cui provenivo prima della deflagrazione. La sostanza è intatta. Non siamo diventati muti. Io non sono divenuta sorda per salvarmi dalla violenza dello scoppio. Anzi, ho affinato l’udito. Ma soprattutto ho scoperto che ero viva. Che l’incanto era spezzato, che non avevo più la paura di morire quando sarebbe accaduto, perché era accaduto ed ero viva.
Oggi si diluisce e scorre via la “patologia” di un amore sclerotizzatosi in un sogno già da anni mutilato dalla tirannia del tempo e dalle asincronie dei tempi.
Sono libera da ogni incolpevole colpa, da ogni irrimpiangibile rimpianto. Sono libera da un incantesimo. E’ questo che ripeto e sento.
Libera e ricca come chi non ha più niente e non può che cominciare a raccogliere non avendo più niente da perdere.
Ogni mia paura, ogni mia attesa di dolore è stata agita, l’ho vista in scena e sto uscendo dal teatro illesa come ero prima di entrarvi, ma con i polsi sciolti dai legacci delle mie paure, delle mie attese pavide delle minacce del futuro.
Al passato, la vita diventa innocua.
Sto imparando una lezione che ha impiegato mezzo secolo a maturare.
Passa corrente ora in luci che ho dentro e che dovevano restare spente per consentire i giusti giochi d’ombra e luce all’allestimento delle sale dove esponevo i quadri dipinti dal passato.
Ora le sale sono state spazzate. E da una tromba d’aria. Ma non inaspettata. Il che ha attutito lo schianto.
Una tromba d’aria che, mi si può credere, da un certo momento era diventata addirittura aspettata.
C’è un sollievo nel trovarsi ora dinanzi alla propria definitva dismissione e scoprire che al posto del lutto prende corpo ora una sorta di resurrezione.
Posso distrarmi, ormai, dal coltivare fiori di serra appassiti tenendo sul naso occhiali truccati con dentro, sul vetro, il disegno di quei fiori appena sbocciati.
E recuperato quel tempo dedicato al giardinaggio della memoria, innaffiare la nuova vegetazione emersa dalla mutazione. E le mie energie, per dissodare il terreno della vita che (mi) resta per seminare nuove forme di aiuole e magari scoprire, che mentre sono china a prendermi cura delle foglie delle gemme delle mie piante, dei fiori che ho partorito anni fa sui miei rami, disimpegnata dalla cura di me, un braccio di sole si tende lentamente e in silenzio ad accarezzarmi le spalle.