tredici onirici fiori

Il silenzio è terra di un vaso da balcone nel quale i pensieri vanno coltivati con estrema cura.
Per questo seminiamo solo sussurri, disposti a distanze siderali per avere tempo di distendere il corpo intero ad ascoltare.

Echi. Ricordi. Mai rimpianti.

Sul nostro davanzale crescono solo fiori rari.

E’ per questo che dal bordo di due isole distanti, noi, di nascosto, solo nei sogni, di notte li innaffiamo.

E a sfogliarli petalo a petalo, poi, bagnano gli occhi, come ad innaffiare noi. Me, senz’altro.Foto0669

Naufragio di giorni muti

WP_20180204_10_29_47_Pro

Albeggia. Solo l’affanno di una girandola sul balcone tiene a bada il silenzio di un giorno che nascendo già muore. Poi scoppia  il grido dei gabbiani e il cielo tace più forte, arricciando le labbra di schiuma.

Sono crollate  insieme le lancette sulla curva del sei. Le trattiene la gravità della terra o piuttosto la gravità del momento. L’assoluto nulla di un’alba inutile.

Trafitto dall’incuria, il cuscino vomita interiora di gommapiuma. Gialla. Come il tramonto iroso di un sole sgonfio.

Siedono in file. Non si guardano. Nemmeno si tengono per mano.

I giunti che le articolavano in frasi coerenti sono bloccati come ginocchia di Pinocchi arresi. Forse semplicemente annoiati dalle infinite repliche senza il respiro di un sipario.

E’ il silenzio, vedi? Loquace come un grillo. Un timpano forato dal disuso. Ragnatele di tulle. Ballerine deformi immobilizzate a mezz’aria, imprevista slogatura di un passo d’addio. Senza la consolazione di fingerlo falso. Un passo. Un addio.

Le ho poggiate sul letto in disordine, al margine di un cambio di stagione. Si son nascoste sotto il letto dove la polvere veglia per mordermi i sogni di notte ed appannarmi l’alba.

Ora piove. Mentre la sabbia mi inonda le lenzuola. Nessuno ascolta la sordina di un pianto muto. Una commozione discreta che scivola cera  già rappresa. Fumo di oblio. Fumo di candela.

Tu che mi aspetti non mi hai vista passare. Non mi hai vista mentre non ti passavo accanto, davanti di traverso e in fondo.

Averti. Incastrata tra le cosce come la prua di una nave smarrita, che ha invertito la rotta e si difende volgendo la poppa al tempo, illusa d’ingannarlo, di aggirarne lo scoglio che le ha già trafitto il ponte da mezzo secolo d’inverni.

La nave, ridotta a una croce di legno, tiene stretto a due dita di corda un brandello di vela.

Denti di sale mordono la schiena all’orizzonte, spina dorsale inarcata s schivare lo sputo delle onde.

Cosi costante l’urlo da sembrare un silenzio uniforme. Smetterà. E crollerà in frantumi il cielo, stalattiti di vetro che riflettono solo i profili del vento.

Il castello di sabbia sulla riva sarà un piede che scalcia.

Averti. Incastonato al centro dei denti. Come un urlo, come uno sputo, come un invito trattenuto, un gemito, un rifiuto.

Chiudo gli occhi. E risento le mani che tendevi per ripararmi dai tuoi addii. Stringo i pugni. E rivedo le parole che inventavo per schivare i miei addii.

Un singhiozzo chiude il giorno intessendo sugli ultimi telai delle finestre antiche i ricami dei venti ancora acerbi. Poi la luna si spegne. E l’inchiostro si asciuga dopo avere inzuppato le zanne di questo tempo metà angelo metà barracuda.

S-nodi ferroviari

WP_20170501_11_36_47_ProUn tempo, sarebbero state parole. Parole tiranne e ribelli. Parole che rotolano a catena e che srotolano catene, lanciando alla deriva l’anima, come una barca in pieno vento ad occhi chiusi, i pugni colmi di sabbia, sul fondo immobile di un sogno ancorato a riva. Inchiodato a riva. Intagliato nella schiuma che lava e disegna. Nessuna partenza; solo un incanto, una meraviglia, un inganno, ma non un trucco. Un trucco mai.

Oggi , l’eco è un singhiozzo ingoiato, sorpreso di sé. Un capotreno con la gonna e un sorriso che fischia la partenza e sventola un tablet. Un tablet. Non una paletta. Il tablet che le aveva acceso il sorriso mentre mi passava accanto e io restavo là. Sola come mai. Come mi sono insegnata ad essere. Come mi sono mandata a memoria. Ed a futuro oblio.

Tra il fischio e il tablet io ero l’assente. Mi agitavo immobile nel risucchio vuoto di un riflesso appena opaco sopra un finestrino sporco. Ero quello che non c’è più. Ero la paletta che un tempo animava i treni lenti. Lo scricchiolio dei sedili senza fili. Ero il respiro lento di un mantice antico che scimmiotta il vento. Ero l’ombra che non proiettavo più sull’asfalto che sfoggiava un abito grigio, una mise sbagliata per un errato galà.

E allora ho camminato dandomi le spalle. Ho camminato piano sull’attrito di un nodo ambiguo e incerto che tirava verso la parte solitaria del binario, un luogo appartato dove sciogliersi per liberare il petto, e l’altro capo, popolato di sconosciuti che forse dentro trattenevano nodi e li avrebbero sciolti in sale sulle artificiali guance fluorescenti di un PC. Magari di un tablet-paletta per dare il via libera all’esistere, ad un esserci altrimenti negato, in un teatro dove tutto è deragliato, scivolato di lato, uscito dalla guida e ricompattato nella consolazione illusa ed illusoria di un click.

Ecco, ora sento la ruggine che fa gracchiare gli ingranaggi di un fiume di inchiostri colorati prosciugati dall’usura del Nonpiù. Una terra grigia, dove l’anelito al pianto si mischia e si confonde con la commozione di uno spettatore che ha passato la mano e rincula nell’innocente, innocua, breve fuga nell’orgasmica scoperta di essere rimasta viva ancora un po’ sotto la cenere. Qualche pezzo. Poco più.

E il futuro è l’esito di uno scambio, la parabola esatta disegnata da una leva azionata qualche vita fa.

re-visioni

vi

Ah, le notti lontane, che tornano come riflessi di un sole malato tra gli alberi rinsecchiti delle mie dita grigie. Scie di stelle cadute, incastrate nelle unghie, schiuma d’alghe bianche arenate sulla duna del pugno socchiuso.

Dove sono, domando, l’amicizia del giorno, la passione della sera, le lacrime dolci della rugiada?

Dove il fuoco che scaldava la pietra e arrossiva le guance alla stanza vestita soltanto del velo trasparente della tenebra, a sera?

Un pomeriggio acerbo bastava a vagheggiare l’assenza del ritorno, ad annunciare l’insonnia dell’oblio.

Dove è il disegno dei profili incastrati nel marmo che scrutavano i passi dal pavimento antico?

Ho visto nuvole e demoni, bestie ed impronte, espressioni beffarde o allegre emergere dall’intrico dei marmi tagliati a scaglie grosse mentre fissavo il suolo, spalle al vento sottile di un respiro, un racconto, un lieve canto.

Qui, se giro la testa fin dove mi consente la tirannia del collo confitto nella radice marcia del tronco, posso immaginare l’arazzo bicolore alle mie spalle.

E scrutare il silenzio con le orecchie abbagliate dal lampo di un finto ricordo.

Arresa, posso voltarmi, infine, ad occhi chiusi verso la fuga angusta di un angolo ottuso dove a capo chino siedono le vergini dei sogni mai vissuti. Le mani in grembo, intrecciate come ricordi discordi, fraintendimenti amari, storie difformi.

Prefiche in bianco che sembrano bambine senza sguardo, le orbite vuote scavate dall’inganno breve di un perfido gioco.

Mimando con le labbra un gesto aspetto che fiorisca tra le crepe dei denti una domanda, l’edera tenace di una nostalgia che rattoppi e alla notte ricucia la coda di un giorno.

Però solo il silenzio risponde, con il vuoto di una eco muta, con l’orbita spolpata che riverbera lo sfrido di uno sguardo, con lo schiocco di un dito che ritorna in asse dopo essersi spezzato in un’invocazione di aiuto.

E le stelle ondeggiano, si staccano, si scontrano e rotolando incendiano di fuoco freddo il panno nero di feltro che l’infanzia mi svelò, prima che con le dita acerbe, nel sollevarlo, io vi trovassi il cielo.

oltremisura

Einsamkeit1

Mi chiedo se conosci la misura della mia solitudine.
Prova a poggiare il metro, per cominciare, sull’orlo del lenzuolo che, di notte, s’impiglia nel bordo di un silenzio ostile anche alle stelle.
Continua a srotolare il nastro sulla diagonale del soffitto che riflette opaco l’abisso inquieto del rettangolo sfatto. A pelo d’acqua nuotano ansie senza ragione, rese che si propongono come ancore, periscopi d’occhi ciechi che cercano invano di forare i futuri. I vostri. Che ci sarete quando non ci sarò.
Se tendi il metro tra l’alluce del mio passo più lento e del mio indice proteso ad indicare il ritorno, se accetti d’ascoltare il respiro della risacca, il sibilo del vento che ci inquieta, il respiro acre sotto il cespuglio che protegge l’ostinata infanzia già perduta…
Se ti fermi a metà dell’ennesimo giro di malinconica danza e fissi lo sguardo sul velo del tulle più esterno che trema nell’abbrivio, se chini di lato il capo e indossi il mio saio color sera, i miei sandali rosi dall’andare incerto, ma non stanco…
ti cadrà, allora tra le dita l’estremità del metro che ignori, pur indossandolo, come una sciarpa negletta dalla gioventù.
Ti si fermerà tra l’indice e il polso l’estremità del metro. Ma non di carta. Linguetta di metallo che tende la misura, e la misura e fissa un punto, prima beffardo, dopo disperato, sapendosi “qualsiasi”.
Ecco, oltre quel gesto che scrolla dalla mano il nastro gommato, comincia la misura nascosta della mia solitudine.
La incontrerai domani. E vi riconoscerete, come compagne di stanze di un collegio antico, dove da sole, separate, siete cresciute. Ormai, quel giorno, orfane di me.

trasparente transito

Io sono dietro il vetro.
Inchiodato il cuore al telaio, in un fremito di ciglia attraverso qualche volta terre desolate, che un tempo furono animate. Attraverso dune pietrificate slanciando la mia immobilità sull’alito lungo di un lamento di vento. Finto volo, rinculo di silenziatore nel vuoto.
Solo qualche raro passante solleva gli occhi, forse in attesa di azzannare una briciola inaspettata. Briciole che non ho. I pugni nelle tasche di un abito largo dove si deposita la polvere che mi cade dalle unghie ogni volta che cerco l’equilibrio su questa croce sbilenca delle mie spalle chine da un’infanzia timida che non è cresciuta ancora.
Che non cresce mai, ma si nasconde. Si nasconde con la professionalità consumata di un’abusata consuetudine al sopravvivere.

Nel raschiarmi via, siate fragili come la vita e dolci come il ricordo. Siate teneri come una madre e cauti come la notte. Siate lievi come un bambino e spensierati come brezza nelle vele.
Nello scollarmi tenete fisso lo sguardo sull’ombra che cambia e ridisegna la traccia in una finzione di mobilità. Come se un’onda vestisse l’asola di una fossa dimenticata e la lasciasse nuda, poi, nel risucchio pentito che la richiama a casa. Al vortice, al cuore che pulsa d’alga e di lisca. Al mulinello che nasconde la tracina e scopre la chela. Indifferente, mutabile, estrema. E dentro il centro del vostro palmo s’accenderà per un istante lo sfrigolio di un residuo che brucia, la mia pelle di cenere bianca e l’automatismo di un ricordo nel rigor vitae che mi sospende e infine mi dissolve.

Il fumo esita, si riavvolge su se stesso come se nel guardarsi intorno cercasse una sponda di legno per cui farsi frangia, bordo, sipario o bavaglio. Solo dopo un inchino che implode dentro una tristezza che solo la malinconia oscura, solo dopo un singhiozzo retroflesso, solo al termine di un sospiro opaco, si disperde. E l’aria lo culla prima di morderlo e digerirlo piano.

L’inganno estremo, il perfetto inganno, il senso che dà al senso senso si dipana lungo l’incosciente estensione fuori misura di un tempo elastico che non è mai dato.
I verbi accentati che accolgono come discariche le occasioni rinviate. Ma non c’è nulla oltre l’oltre dell’attimo consumato. Ed è finita da tempo l’età d’adolescenza, quando sperare è legge e disperare consuetudine, corollari di una formula i cui bordi son larghi e curvi e sembrano grondaie accoglienti per i sogni.
Ma l’inganno estremo, il perfetto inganno delinea illusionismi di ampie quinte dove ammassare le occasioni perdenti da recuperere appena sarà finito il dramma. E svelata la tragedia. Compiuta la commedia. Finito l’atto e calato il panno di velluto sul teatro vuoto.

Uscendo penseremo ancora, forse, ok, domani, lo farò domani, domani lo sarò. Capirò, correggerò, riparerò, vivrò, recupererò. E l’ultimo accento spaccherà nel punto critico il vetro dove in cinque lettere si polverizzerà in frammenti di cristallo il  t e m p o. Lasciando sul pavimento il significato smarrito di un coccio opaco.

cifra

????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????

piangono resina gli alberi muti
dentro i giardini della nostalgia

è colla di memoria tra le dita
la scheggia di corteccia disseccata

ha raschiato la pelle come sabbia
quando l’acqua ha invaso il palmo cavo

la speranza malinconica e nuda
che un disegno casuale la salvi

Quando i fulmini son meglio del cielo

Foto6645

Quando chiusero l’ultima fabbrica le rondini erano già andate via da qualche mese.

E le campane spaventavano i corvi, solo i corvi.

Non li posso contare, diceva, non li riesco a contare! e le mani gli tremavano mentre cercava di inseguirsi le dita e perdeva il segno ad ogni indice e cominciava daccapo e daccapo e daccapo.

Nonlipossocontare era un mormorio disperato e tremulo, come le labbra un po’ schiuse, ed umide, e livide agli angoli passati dei morsi dati, graffiate dal vetriolo dei monosillabi sfiniti da ineluttabili certezze.

Quando chiusero l’ultima fabbrica pioveva senza argini, perché le strade si erano dissestate nello scalpiccio dei mille piedi in marcia, inutili. Proteste in fila a pugni alzati, scivolati inascoltati nel fango. Increduli fino all’ultimo passo. Non può accadere quello che accade. Nemmeno mentre accade. E la pioggia lava e scorre.

Tutto scorreva. Tutto correva. E che tutto fosse un tutto senza sconto rendeva quella corsa immobile.

La caduta del mondo che cade con chi cade. E così mai smette, mai smette. Il baratro s’abbassa e la traiettoria si paralizza nel precipitare eterno. Di tutto. Mai s’accorcia la distanza, mai si concede generosa la liberazione dello schianto.

E così che lui cade. Mentre chiudono l’ultima fabbrica e le sirene si sgozzano da sole, isteriche. E’ così che cade, in una posa oscena che stringe il cuore al centro e lo preme. Scomposto, è immobile nell’imitazione di un urlo divenuto burro nella frenesia del pianto, nell’agitata conta degli uomini soli, e chini, e curvi, e muti, e vuoti, e informi nelle tute inermi foderate di braccia immobili. Impotente declino. Una folla. Le orbite cave nostalgiche degli occhi dati in pegno al banco per comprarsi in cambio un grano di speranza e una busta di carta piena di una banconota sola.

Quando chiusero l’ultima fabbrica pioveva senza argini. Non posso contare, diceva, non riesco a contare! E le mani  roteavano a catturare come mosche le gocce. Gocce, gocce, gocce.

Così lo immaginava. Uno spaventapasseri meccanico con le molle spezzate nello sterno e le caviglie. Lei così lo immaginava, mentre sedeva su un sasso e dava le spalle alla sera appiccata sopra i tetti dell’intera città.

Quinta decade

in hands

Dove ti hanno poggiata, quando il fiato s’è fatto lieve e se non fosse stato per gli artigli delle dita impigliati nei nodi delle radici ti si sarebbe aperto in ali il petto spalancato come specchio al cielo?

E dov’eri, quando contavo le foglie sul viale ad una ad una e le numeravo dopo averle lette, sfogliate in ordine inverso per capovolgere la storia che recavano nelle nervature sottili come i gesti tuoi?

Quelli che non ho capito, perché urlavano forte il nome inconsueto dei tuoi fragili denti.

Quelli che non ho sentito, perché scavavano più sotto del cuore cercando la chiave ingoiata negli ultimi sogni rimasti.

Quelli che non ho raccolto, perché stendevano troppo oltre la lunghezza del mio indice le ciglia simili a cortine ingenue contro il muro ardente del tramonto.

Dove ti hanno portata, quando la protesta dell’usignolo s’è inceppata nel buco ostruito di bava d’inganno dentro il nido del ragno?

E dov’eri, quando spargevo farina di neve sulle nocche bruciate delle dita sbucciate dal continuo bussare alla finestra sul retro che ti incorniciava il profilo assorto nel silenzio?

Quello che non ho raccolto, perché ti scorreva via veloce dall’imbuto dei fianchi agitando lo stupore col tocco lieve di un fazzoletto d’addio.

Quello che non ho sentito, perché rotolava dalle mani del giorno verso l’alveo secco delle notti d’autunno ed implorava scampo nel disegno di una parola abbozzata sul muro.

Quello che non ho capito, perché ostruiva di pietre il mio sguardo arreso all’inerzia di un orizzonte senza curva.

Dove ci hanno portati, dove ci hanno poggiati e dov’eravamo, quando liquefatti in inchiostro che nessuno può toccare scivolavamo a precipizio nel rullo degli occhi di uno scrittore disattento che tra un attimo, ora, ci avvolgerà in un minuscolo pugno. Condensa dell’oblio nella perfetta forma di un punto.

Punto.